Il Collettivo Politico di Scienze
Politiche è una realtà che esiste dal 1978. Riteniamo che la
Politica sia il lavoro quotidiano che moltissimi attivisti svolgono
sui luoghi di lavoro, nelle scuole e nei quartieri per creare
alternative al sistema dominante. Politica per noi significa battersi
contro il neofascismo, contro un sistema fondato sullo sfruttamento
dei lavoratori, contro lo smantellamento del diritto allo studio,
contro la creazione pretestuosa di una società insicura,
xenofoba e sessista. Siamo sempre stati in prima linea in
tutte le mobilitazioni universitarie (compresa l’ultima di questo
autunno) per ribadire la nostra contrarietà alla destrutturazione
del diritto allo studio, inserendola però all’interno del contesto
di crisi generale del capitalismo e, per questo, stringendo forti
legami con i lavoratori di tutto il territorio metropolitano
fiorentino. In questi anni il ColPol ha tentato di
rianimare l’università con contenuti che i corsi non passano.
Abbiamo organizzato iniziative sui popoli in lotta, siamo, ad
esempio, da sempre stati al fianco del popolo palestinese, dimostrando
solidarietà concreta con la sua lotta di liberazione. Abbiamo
organizzato convegni e conferenze sull’America Latina, sulle crisi
del capitalismo, sulle nocività e i cantieri dell’alta velocità, sulle
foibe, sullo smantellamento del diritto allo studio, sulla precarietà
e le riforme del mondo del lavoro. Siamo stati promotori di
manifestazioni e presidi antifascisti e contro le derive securitarie e
razziste dell’amministrazione comunale. Al fianco di quelle realtà
che fanno dell’autogestione la loro pratica politica a Firenze e in
tutta Italia.
Alcune riflessioni sull’Onda
Lo scorso autunno ha visto la nascita
di un movimento studentesco trasversale a scuole e università, in
risposta all’ennesimo attacco all’istruzione pubblica. L’edificio D5
del Polo, occupato per un mese e mezzo, è stato il centro nevralgico
della nostra mobilitazione, con la creazione di gruppi di studio
sulle leggi suddette, l’organizzazione di iniziative sui più
svariati temi e di momenti di piazza che hanno riversato sul
territorio potenzialità conflittuali sopite da troppo tempo. Cortei,
presidi, blocchi del traffico, occupazioni di stazioni, contestazioni
a rappresentanti del Governo e delle autorità accademiche hanno
caratterizzato la mobilitazione di studenti, personale tecnico
amministrativo, precari, genitori e insegnanti. Il movimento ha
condiviso fin dall’inizio lo slogan “Noi la crisi non la paghiamo”. Tale slogan ha saputo
mettere in risalto la stretta connessione tra i tagli imposti al
mondo dell’istruzione e la crisi economica in atto. Allo stesso
tempo, però, ha rischiato di svilirsi quando alcune componenti
studentesche istituzionali o para-istituzionali si sono alleate con i
professori o con una parte delle istituzioni, gli uni interessati a
cavalcare l’onda per tornare a controllare più risorse economiche,
le altre impegnate da anni nella realizzazione e nell’applicazione
delle controriforme universitarie. Non si trattava infatti di drenare
“qualche spicciolo” dalle generose elargizioni del governo alle
banche, bensì di formulare una critica radicale all’intero sistema
della formazione, ormai totalmente funzionale alle logiche del
mercato e del profitto.
La priorità del movimento diventa
quella di unirsi agli altri soggetti colpiti dalla crisi e a coloro
che lottano contro la devastazione dei territori, creando un unico
fronte di opposizione sociale che consolidi percorsi e pratiche
comuni nell’ottica di imporre un cambiamento radicale dentro e
fuori l’università. E’ da questa consapevolezza che dobbiamo
ripartire, dalla convinzione che l’università deve diventare luogo
di transito per le varie lotte: opporsi a questo modello formativo
significa opporsi ad un modello di società basato sul controllo,
sulla precarietà e sullo sfruttamento.
Diritto allo Studio
Come da copione anche quest’anno
l’accesso a numerose facoltà ed a singoli corsi di laurea è
limitato da un numero chiuso. La giustificazione unanime fornita da
governo, industriali e rettori verte su due “virtù” proprie
dello sbarramento all’ingresso: l’efficienza delle strutture
universitarie e la possibilità di selezionare i più capaci e
meritevoli tra gli studenti.
Lo chiamano test di autovalutazione ma
la logica è la stessa del numero programmato: chi non supera il test
possiede un debito formativo che gli preclude la possibilità di dare
esami la frequenza di corsi di recupero “libera” lo studente da
questo debito, dandogli finalmente la possibilità di sostenere le
prove d’esame. È evidente come in questo modo si precluda ad un
certo numero di studenti (in particolare gli studenti-lavoratori) la
possibilità di proseguire la carriera universitaria basandosi sui
risultati di un test nozionistico, quando sarebbe sufficiente
consentire il libero svolgimento dei corsi di recupero, la
possibilità di frequentare le lezioni e di dare esami per aggirare eventuali lacune, senza per questo
punire chi non passa la selezione. In questo modo si assottigliano le
aspettative da parte di chi si appresta a frequentare l’università
ed appartiene ad una classe sociale sfavorita, accentuando, invece
che limitando, la selezione di classe.
La selezione di classe è un meccanismo
progressivo che incide a partire dalla scelta della scuola media
superiore, proseguendo via via lungo il percorso universitario. Se
pensiamo che da quest’anno esistono degli sbarramenti tra triennale e
magistrale, e che questi sbarramenti si riproducono dopo la
magistrale nell’accesso ai vari master (molto costosi e quindi
inaccessibili a “chi non ha”), il quadro diviene più chiaro.
L’intenzione è quella di produrre una differenziazione dei percorsi
di studio che rigeneri una stratificazione sociale funzionale alle
esigenze delle imprese.
Non è un caso che la riforma Brunetta
(legge 133) differenzi, tagliando le risorse, tra atenei competitivi
, e atenei di serie B, nei quali si producono futuri lavoratori
disciplinati e dequalificati.
L’unica risposta alla selezione, alle
politiche che ci vogliono sempre più ingabbiati e legati al nostro
destino di lavoratori competitivi e supini ai bisogni del padrone di
turno, è la lotta per una Università che sia pubblica, che non
preveda costi per gli studenti, che sia di qualità, che consenta
l’accesso a tutti (indipendentemente dalla classe sociale di
provenienza) che non sia elitaria, bensì di massa.
Altra questione irrisolta è quella
della esiguità del numero degli appelli. Durante l’anno accademico 2007/2008 si
decise di diminuire il numero degli appelli da 8 all’anno ai 6
attuali. Gli appelli intermedi di novembre ed aprile sono stati
riservati alle prove intermedie; il docente, in autonomia, può
decidere se avvalersi o meno di questo tipo di prove, e se lasciare
la libertà ai non frequentanti di parteciparvi. Questo fatto prevede
due conseguenze:
1) lega la possibilità di svolgere
alcune sessioni d’esame alla frequenza delle lezioni, accentuando
dunque la tendenza a compartimentare i percorsi di studio. Se infatti
uno dei tanti studenti lavoratori (il 54%) ha in generale a
disposizione solo 6 appelli, lo studente frequentante ne ha a
disposizione 8.
2) rientra in quella strategia voluta
dalla CRUI e da Confindustria improntata sull’obbiettivo di legare la
formazione a criteri di produttività e flessibilità mascherandosi
dietro la tanto decantata meritocrazia. Infatti legando gli appelli
alle singole lezioni si organizza il tempo di studio in senso
modulare, basandolo su un modello del tipo
lezione-esame-lezione-esame che non lascia spazio all’approfondimento
dei temi trattati e quindi ad uno studio organico della materia in
questione e ad una crescita intellettuale ed autonoma dello studente.
Crediamo per tutte queste ragioni che
richiedere il ritorno ad un numero sufficiente di appelli (8
all’anno, reintroducendo quelli di aprile e di novembre), sia non
solo una giusta necessità di tanti studenti, ma un modo per dare
all’Università la funzione sociale che gli spetta, contrastando il progetto, in parte già attuato, di
scolpire, a colpi di controriforme, un sistema formativo classista e
dequalificato.