SULLA GAZA FREEDOM MARCH


Ripubblichiamo il documento del Forum
Palestina di bilancio delle mobilitazioni internazionali in occasione
del primo anniversario dell’operazione "Piombo Fuso" a Gaza
ed in particolare della Gaza Freedom March.

Nelle intenzioni la Gaza Freedom March avrebbe dovuto essere una
manifestazione storica, probabilmente la più grande manifestazione
internazionale della storia recente. Promossa dalla rete statunitense
Code Pink nel primo anniversario
dell’operazione “Piombo Fuso”, avrebbe portato quasi 1.500
attivisti, provenienti da tutto il mondo, a spezzare l’assedio cui
è sottoposta da più di tre anni la Striscia di Gaza, dove un
milione e mezzo di Palestinesi vivono in poco più di 350 km.
quadrati. E’ proprio
attraverso quest’ultimo confine che gli attivisti internazionali
intendevano entrare nella Striscia, avendo concordato con il governo
del Cairo l’ingresso per il 28 dicembre e l’uscita per il 2
gennaio, con l’opportunità, per chi lo avesse desiderato, di poter
rimanere a Gaza fino al 9 gennaio.

Nei mesi precedenti la fine del 2009,
decine di organizzazioni di 42 Paesi si sono dunque attivate per
partecipare alla Gaza Freedom March, ed a pochi giorni dalla partenza
i numeri parlavano di 350 partecipanti dagli U.S.A., 300 dalla
Francia, 150 dall’Italia e molti altri da Belgio, Spagna, Svizzera,
Germania, Inghilterra, Scozia, Canada, Sud Africa, India, ecc., cui
si aggiungevano delegazioni simboliche da molti Paesi arabi, come la
Libia e la Siria.

Improvvisamente, a due giorni dalla
partenza per il Cairo delle prime delegazioni, il governo egiziano ha
comunicato agli ambasciatori dei 42 Paesi di provenienza degli
Internazionali che la Marcia a Gaza non era autorizzata e che ogni
manifestazione in territorio egiziano sarebbe stata repressa. In un
primo momento, gli organizzatori non si sono lasciati impressionare,
anche perché nessuna delle delegazioni che nei mesi precedenti
avevano raggiunto Gaza dal confine egiziano (compresa quella del
Forum Palestina del marzo scorso) aveva ottenuto l’autorizzazione
ad attraversare il confine di Rafah prima di arrivare sul confine
stesso; le delegazioni, quindi, hanno raggiunto il Cairo fra il 25 ed
il 28 dicembre, data in cui sia noi che la delegazione francese,
belga e svizzera avevamo programmato la partenza in pullman per Gaza,
notificandola al governo egiziano. Fra l’altro, il divieto egiziano
di manifestare a Gaza appariva surreale, perché un governo non può
vietare una manifestazione che non si svolge sul suo territorio, ma
su quello di un altro Paese, come se l’Italia vietasse una
manifestazione prevista a Zurigo.

In realtà, i primi
Internazionali giunti al Cairo si sono subito resi conto che
l’intenzione del regime di Mubarak era quella di impedire l’accesso
alla Striscia, in ossequio agli ordini arrivati da Tel Aviv e da
Washington. La mattina del 28 dicembre, infatti, la polizia ed i
servizi segreti di Mubarak hanno sequestrato i pullman prenotati per
Rafah ed abbiamo avuto la sgradita sorpresa di trovarci bloccati in
albergo, fra l’altro a più di venti chilometri dal centro del
Cairo. Sentite le altre delegazioni, la decisione è stata quella di
raggiungere le rispettive ambasciate, per costringerle a prendere
posizione su quello che stava accadendo.

La delegazione del
Forum Palestina ha quindi forzato, più o meno pacificamente, il
blocco della polizia egiziana, avviandosi, con tutti i bagagli, verso
il centro dell’immensa metropoli (che conta più di 20 milioni di
abitanti), con i poliziotti che impedivano ai taxi di prenderci a
bordo. Quella “passeggiata” è durata quasi due ore, quando gli
agenti hanno finalmente smesso di allontanare i taxi ed abbiamo
potuto prenderne alcuni e raggiungere l’ambasciata italiana.
Naturalmente, abbiamo trovato l’ambasciata massicciamente
presidiata dalla polizia egiziana, anche se non con l’atteggiamento
minaccioso ostentato alle ambasciate francese, inglese, canadese e,
soprattutto, statunitense. Per la verità, va detto che i diplomatici
italiani hanno avuto un comportamento molto diverso da quello dei
loro colleghi, adoperandosi per trovarci una sistemazione al Cairo,
mentre – per esempio – l’ostilità dei rappresentanti francesi
induceva la delegazione di Europalestine ad occupare con tende e
sacchi a pelo il marciapiede di fronte alla loro ambasciata
(ribattezzato la Striscia di Ghiza, dal nome del quartiere dove si
trova l’edificio), occupazione che sarebbe durata per tutti i
giorni successivi, diventando un importante punto di riferimento per
tutti gli Internazionali.

Il giorno successivo, 29
dicembre, gli Internazionali raccolgono l’invito dei sindacati
egiziani degli avvocati e dei giornalisti a manifestare davanti alle
loro sedi, per protestare sia contro il divieto imposto alla Marcia
che contro le continue violazioni dei diritti umani perpetrate dal
regime di Mubarak. Di queste violazioni nessuno chiede conto, essendo
il regime egiziano il più importante alleato di Stati Uniti ed
Israele nell’area, il che fa chiudere tutti e due gli occhi a
governi e mass media occidentali sulla repressione, sulle torture e
sulle uccisioni degli oppositori, per non parlare dei brogli
elettorali che da trent’anni garantiscono al “Faraone” Hosni
Mubarak ed alla sua corte di corrotti la maggioranza in un Parlamento
peraltro privo di ogni potere reale.

La manifestazione viene
controllata dai reparti antisommossa egiziani, che mantengono un
atteggiamento tranquillo e non aggressivo, anche rispetto a quello
adottato il giorno precedente di fronte a quasi tutte le ambasciate
ed alla sede dell’ONU, anch’essa obiettivo di una manifestazione
della Gaza Freedom March. Verso la fine della manifestazione, intorno
alle 17.30, i rappresentati delle delegazioni vengono contattati da
esponenti di Code Pink, che gli comunicano una notizia assolutamente
imprevista, accompagnata da una sorta di ultimatum: attraverso una
trattativa condotta segretamente dalla stessa Code Pink, in virtù
del rapporto esistente fra alcune esponenti statunitensi e la moglie
del presidente Mubarak, l’Egitto aveva accettato di consentire
l’ingresso a Gaza, il giorno successivo, di un centinaio di
delegati della Marcia e di tutti gli aiuti umanitari al seguito della
delegazione stessa. Le condizioni sono drastiche, perché la risposta
di tutte le delegazioni, compreso il nome del rappresentante scelto –
solo uno per delegazione – deve pervenire entro le 19.00 ad una
mail prestabilita. Le delegazioni possono inviare solo un delegato
ciascuna perché la metà del gruppo è stata “occupata” dagli
statunitensi.

Naturalmente, la proposta di Code Pink e del
governo egiziano apre subito una drammatica discussione nella
delegazione italiana, anzi in tutte e due le delegazioni italiane (la
nostra e quella di Action for Peace), così come in tutte le altre. I
tempi ristrettissimi e l’assenza di ulteriori informazioni
credibili – perché alla storiella dell’intercessione della
moglie di Mubarak non ci crede nessuno – rendono le discussioni
ancora più tese. Esiste la consapevolezza che la proposta egiziana
punta a dividere il fronte degli Internazionali, ma si fatica a
capire come rispondere ad una mossa senza dubbio abile e cinica:
infatti, se solo una parte delle delegazioni accettasse la proposta,
l’obiettivo egiziano sarebbe raggiunto, ma il discorso vale anche
all’inverso. Ci si misura con il rischio concreto che il giorno
successivo possa segnare la fine prematura della Gaza Freedom March,
anche perché non si riesce ad avere un’informazione completa e
credibile delle caratteristiche dell’accordo raggiunto, oltre al
fatto che della trattativa intercorsa la stragrande maggioranza degli
Internazionali, compresi gli Statunitensi, erano completamente
all’oscuro.

E’ necessario attendere le due del mattino,
quando i compagni italiani che hanno partecipato alla riunione di
tutte le delegazioni tornano a riferire, e quello che dicono spazza
via ogni dubbio: tutte le delegazioni, compresa la maggioranza di
quella statunitense, respingono la mossa egiziana e rifiutano di
ridurre la Gaza Freedom March ad un’iniziativa meramente
umanitaria. Sono risuonate durissime le parole di un compagno
sudafricano, rivolte a quegli esponenti di Code Pink che avevano
condotto i negoziati “riservati” con il governo egiziano: “Se
ci fossimo comportati come voi, nel nostro Paese avremmo ancora
l’apartheid”.

La situazione è divenuta talmente chiara
che, dopo ore di discussioni e contrapposizioni, si decide in pochi
minuti il comunicato stampa italiano e, soprattutto, di andare a
contestare la partenza, di lì a quattro ore, dei due pullman che
partiranno comunque per Gaza, con a bordo quei delegati che hanno
accettato il ruolo impostogli dal governo egiziano e – bisogna
dirlo – dalla gestione scellerata di una parte del gruppo dirigente
di Code Pink. E’ ormai evidente, infatti, non solo la gravità
dell’errore commesso dall’organizzazione che aveva promosso la
Gaza Freedom March, ma pure la necessità di imprimere una svolta ad
una situazione sull’orlo della disgregazione.

La
partenza dei due pullman, prevista per le sette del mattino, si
trasforma in una nuova manifestazione contro il regime egiziano, resa
ancora più determinata dalla notizia che anche i referenti
palestinesi della Marcia hanno respinto con sdegno la manovra
egiziana. Centinaia di Internazionali, Statunitensi compresi,
lanciano slogan e parlano con quelli che vorrebbero comunque partire,
convincendoli a desistere ed a scendere dai pullman. Anche Walden
Bello, che dal pullman salutava sorridendo i manifestanti, viene
indotto a scendere da un poderoso coro di “Shame!” (Vergogna!)
gridato dagli Internazionali. Alla fine, i due pullman partiranno
mezzi vuoti, con a bordo soltanto alcuni Palestinesi – che ne
approfittano per tornare a casa – e qualche delegato della Corea
del Sud. Questa realtà ridicolizza la dichiarazione del Ministro
degli Esteri egiziano, che definisce “buoni e onesti” quelli che
hanno accettato di partire, e “hooligans” quelli che hanno deciso
di rimanere al Cairo e continuare la protesta.

Gli hooligans
hanno però il problema di riorganizzarsi, perché il ruolo dirigente
di Code Pink si è oggettivamente sgretolato e c’è il rischio
concreto di una dispersione delle energie e della disgregazione delle
delegazioni, anche perché c’è chi, con una buona dose di
immaturità e irresponsabilità, si inventa di ora in ora nuovi
coordinamenti, gruppi di affinità e quant’altro. E’ qui che la
“Striscia di Ghiza” assume un ruolo decisivo, perché è lì che
si forma il coordinamento dei rappresentanti delle diverse
delegazioni, costituito dalle compagne e dai compagni che per mesi
hanno costruito la Gaza Freedom March nei rispettivi Paesi: Forum
Palestina ed Action for Peace per l’Italia, Europalestine per la
Francia, quattro diversi rappresentanti per le diverse associazioni
U.S.A. non più unificate dall’ombrello di Code Pink e i delegati
di Spagna, Germania, Svizzera, Inghilterra, Scozia, Canada, India,
Sud Africa e Libia. La prima decisione del nuovo coordinamento è
quella di tenere la Marcia nel pieno centro del Cairo la mattina del
giorno successivo, ultimo dell’anno 2009.

L’appuntamento
è al Museo Egizio, scelto perché è un luogo conosciuto visivamente
in tutto il mondo, immediatamente identificabile nelle immagini che,
si presume, documenteranno l’evento. La tattica scelta è quella
detta “swarm of bees” (sciame di api), cioè la concentrazione
improvvisa e il movimento veloce, che si pensa saranno favoriti dal
fatto che l’area antistante il museo è sempre affollata di turisti
e relativamente libera da poliziotti. In effetti, alle 10.00 in
punto, i primi gruppi di manifestanti arrivati alla spicciolata
riescono a concentrarsi, ma nel giro di pochissimi minuti affluiscono
sul posto centinaia e centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa
ed agenti in borghese dei servizi di sicurezza, che iniziano subito a
picchiare selvaggiamente i dimostranti. In precedenza, quasi tutta la
delegazione nordamericana era stata sequestrata nell’hotel Lotus,
da cui era difficilissimo uscire.

Mentre i poliziotti in
uniforme – perlopiù giovanissimi contadini analfabeti e privi di
addestramento – vengono usati come massa di contenimento, i
funzionari in borghese picchiano come fabbri, accanendosi in
particolare contro le donne. Dopo una buona mezz’ora di tafferugli
e pestaggi, non riuscendo a disperdere la manifestazione, la polizia
costringe centinaia di Internazionali in un angolo dell’immensa
piazza Tahrir, circondandoli con un triplo cordone di agenti. Da
quell’angolo, continuano canti e slogan per la libertà di Gaza e
della Palestina, contro il regime corrotto e collaborazionista di
Mubarak.

Noi abbiamo due feriti: una compagna di Varese
colpita al volto, probabilmente con un tirapugni, che perde molto
sangue dal naso, ed un compagno di Roma, che in un primo momento
sembra avere una gamba rotta. I medici della delegazione italiana,
protetti da un cordone di compagne e compagni, allestiscono
fulmineamente un punto di primo soccorso, che si prenderà cura degli
Internazionali feriti dagli sgherri di Mubarak. Fra l’altro, le
autorità egiziane bloccano le ambulanze, per cui un’altra
volontaria italiana, colpita da un collasso, potrà essere portata
via soltanto dopo l’intervento dell’ambasciata italiana, che
invia una propria auto con i contrassegni diplomatici per prelevarla.
Complessivamente, i feriti bisognosi di cure saranno una decina.

Gli Internazionali tengono la piazza per circa sei ore,
mentre la notizia degli scontri fa il giro del mondo. Nonostante sia
l’ultimo dell’anno, manifestazioni di protesta si materializzano
di fronte alle ambasciate egiziane di Roma, Parigi, Londra ed altre
capitali. Non siamo riusciti a raggiungere Gaza, ma siamo consapevoli
di aver infranto il muro del silenzio sull’assedio e sulla
rinnovata complicità del regime egiziano con lo Stato sionista e con
i suoi sponsor a Washington ed in Europa, e questo ci ripaga di ogni
stanchezza ed ogni tensione. Tuttavia, quando il coordinamento delle
delegazioni decide che l’obiettivo della manifestazione è stato
raggiunto e che si può abbandonare la piazza, sappiamo anche che non
è finita, che abbiamo il dovere di aggiungere un altro elemento di
lotta alla nostra forzata permanenza al Cairo. Per i delegati del
coordinamento, la festa di Capodanno deve attendere: ci dobbiamo
incontrare ancora nella Striscia di Ghiza, al riparo dei 300
irriducibili francesi e delle loro tende sul marciapiede.


L’elemento che ancora manca è la
contestazione visibile del rapporto servile che lega il regime
egiziano all’entità sionista, rappresentato dall’ambasciata di
Tel Aviv, che ha sede in un grattacielo esattamente di fronte
l’entrata del grande zoo del Cairo, non lontano dalla Striscia di
Ghiza. Intorno al tavolo di un fast food, si mettono a punto i
particolari: ricorreremo ancora allo “swarm of bees”,
dislocandoci a piccoli gruppi vicino all’ingresso dello zoo per
concentrarci all’improvviso davanti l’ambasciata, contando sul
fatto che dovremmo essere centinaia, rispetto a non più di un paio
di decine di poliziotti egiziani. Condizione fondamentale per la
riuscita del blitz è il mantenimento del segreto, piuttosto
improbabile, visto che dell’azione devono essere informate
centinaia di persone, e che le stesse persone dovranno comunque
muoversi da alberghi sottoposti a strettissima sorveglianza, per non
parlare dei Francesi, che dovranno percorrere i cinquecento metri che
separano la Striscia di Ghiza, presidiata da un numero impressionante
di agenti, dalla piazza dello zoo.

Il blitz del primo giorno
del nuovo anno funziona alla perfezione. All’orario convenuto,
centinaia di api sciamano fino all’ambasciata israeliana,
travolgendo pacificamente i pochi agenti egiziani presenti. Dalle
auto e dagli autobus, i cittadini del Cairo assistono – stupefatti
ed entusiasti – allo spettacolo straordinario delle bandiere
palestinesi alzate davanti al simbolo dell’oppressione e del
tradimento dei propri governanti, quelli che ricevevano con tutti gli
onori il primo ministro israeliano, nelle stesse ore in cui facevano
reprimere e picchiare gli amici della Palestina arrivati da ogni
parte del mondo.

I reparti antisommossa impiegano almeno
venti minuti per raggiungere l’ambasciata e schierarsi intorno agli
Internazionali, stavolta senza ricorrere a violenze. Appare evidente
che le reazioni nel mondo alle brutalità del giorno precedente
pesano sull’immagine dell’Egitto, e poi persino un regime
corrotto e screditato come quello di Mubarak avrebbe difficoltà a
gestire con la propria opinione pubblica la repressione di una
pacifica protesta contro lo Stato di Israele, il cui ambasciatore,
infatti, chiede senza successo l’arresto immediato di tutti i
manifestanti, mentre le cancellerie occidentali, stavolta, fanno
sapere al governo egiziano di non gradire altri interventi repressivi
contro i propri cittadini. La manifestazione si scioglie, come
previsto, dopo un paio d’ore.

Nella serata, un grande saluto
collettivo nella piazza Tahrir segna l’ultimo momento della Gaza
Freedom March: un attivista legge la Cairo Declaration, elaborata –
non a caso – dai delegati del Sud Africa, dove vengono riaffermati
i punti fondamentali della solidarietà con i diritti del popolo
palestinese e rilanciata la campagna di Boicottaggio, Disinvestimenti
e sanzioni contro l’Apartheid israeliano. La Dichiarazione viene
acclamata da tutti gli Internazionali, e si avvia a diventare la
piattaforma comune di lotta del movimento di solidarietà con il
popolo palestinese.

La Gaza Freedom March conclude così il
suo percorso in Egitto. Inizia quello lungo tutte le strade del
mondo.

“In quanto israeliano, protesto contro il blocco
israeliano. Se fossi egiziano protesterei contro il blocco egiziano.
Come cittadino di questo pianeta, protesto contro entrambi”.
[Il
Muro d’acciaio, Uri Avnery]

Il bilancio sul risultato
dell’adesione e della partecipazione del Forum Palestina alla Gaza
Freedom March è più che positivo per almeno due aspetti: il primo è
relativo all’obiettivo politico raggiunto nella settimana di
mobilitazioni organizzate al Cairo insieme alle altre delegazioni, il
secondo riguarda più direttamente la piattaforma politica e i
progetti di lavoro su cui insistere nei prossimi mesi.

Nel
primo anniversario del massacro di circa 1.400 palestinesi (con oltre
5.000 feriti) compiuto da Israele con l’operazione militare
cosiddetta “Piombo Fuso”, il primo obiettivo della Gaza Freedom
March era quello di manifestare insieme ai Palestinesi di Gaza nel
corteo che il 31 dicembre dal nord di Gaza City avrebbe raggiunto il
valico di Eretz, sostenendo il tal modo la loro resistenza e la loro
lotta di liberazione, dopo aver concretamente rotto l’assedio cui è
sottoposta la Striscia di Gaza dal giugno del 2007. Le nostre
intenzioni hanno dovuto scontrarsi contro il muro che, come quello
che materialmente l’Egitto sta costruendo al confine con Gaza,
Israele – con la complicità della comunità internazionale – da
quasi tre anni ha eretto attorno al milione e mezzo di palestinesi
della Striscia.

Ci siamo confrontati direttamente con le
politiche del regime di Mubarak, che ha dimostrato, ancora una volta,
quanto l’Egitto assecondi il sistema dell’oppressione israeliana
della Palestina, tenendo chiuso il valico di Rafah, costruendo un
muro di acciaio (finanziato dagli U.S.A.) che scenderà per 18 metri
sotto il suolo al confine, ma anche impedendo alle delegazioni
internazionali di portare solidarietà all’interno della Striscia
di Gaza. La mancata autorizzazione delle autorità egiziane
all’ingresso della Gaza Freedom March, annunciata pochi giorni
prima che tutte le delegazioni raggiungessero l’Egitto, è stata
ribadita nei giorni successivi attraverso il divieto a lasciare il
Cairo, il costante controllo cui erano sottoposti i delegati da parte
della polizia e della sicurezza egiziane e la violenza con cui la
polizia egiziana ha tentato di reprimere la manifestazione del 31
gennaio in piazza Taharir, di fronte al Museo Egizio, provocando
diversi feriti tra i manifestanti.

Era ben chiaro che la
nostra presenza aveva un fine tutto politico, ed era chiaro a noi
che, pur senza entrare a Gaza, avremmo potuto esercitare delle
pressioni e raggiungere, come abbiamo fatto, un obiettivo importante:
quello di rendere note all’opinione pubblica mondiale, ai media
occidentali e arabi, le motivazioni della nostra presenza in Egitto,
la nostra condanna dell’infame politica coloniale di occupazione
della Palestina, del crudele isolamento della Striscia di Gaza, e del
sistema di complicità internazionale che garantisce tutta
l’agibilità e l’impunità alle politiche israeliane. La
consideriamo come una vittoria all’interno della nostra costante
battaglia sull’informazione, che in Italia come in altri Paesi
serve quotidianamente la propaganda israeliana attraverso il silenzio
o la distorsione della realtà. Questa soddisfazione, naturalmente,
non vuole nascondere la nostra amarezza per non aver potuto
consegnare gli aiuti raccolti per la popolazione di Gaza, a partire
dalla sottoscrizione per l’ospedale Al Awda (che ha superato i
30.000 euro). Ma non ci arrendiamo nemmeno su questo punto: sapremo
trovare il modo per portare a termine anche questo compito.

Con
un accordo inizialmente siglato tra l’Egitto e gli organizzatori
statunitensi, ma poi respinto da tutte le delegazioni, il regime di
Mubarak ha evidentemente tentato di depotenziare politicamente la
Gaza Freedom March, proponendo l’invio di una delegazione ristretta
di cento attivisti delle organizzazioni più «buone e sincere nella
loro solidarietà con Gaza come noi [il regime]», come ha detto il
Ministro degli Esteri egiziano Aboul Gheit, con il fine di consegnare
gli aiuti. Un accordo considerato come una trappola, dopo un lungo e
a volte aspro confronto interno e tra le delegazioni. La decisione di
rifiutare quell’accordo, condivisa in un secondo tempo anche dalla
maggior parte degli statunitensi di Codepink, che l’avevano
inizialmente accettato, ha evitato di concedere un’occasione d’oro
al regime di Mubarak per “togliersi facilmente dall’imbarazzo”,
come hanno scritto da Gaza Haidar Eid e Omar Barghouti, rispetto ad
una posizione sempre più fedele agli Stati Uniti e a Israele, e di
garante degli attuali equilibri nell’area mediorientale, tesi
all’isolamento del’Iran, della Siria e di Hamas, e quindi della
Striscia di Gaza. Una politica avallata anche da un’ANP
consenziente, come hanno dimostrato le parole di Abu Mazen, che ha
rigettato su Hamas la responsabilità dell’assedio cui è
sottoposta Gaza e “giustificato” la costruzione del Muro di Ferro
al confine con l’Egitto, come peraltro ha fatto anche il Clero
Islamico egiziano legato al regime di Mubarak.

A partire dal
27 dicembre, nei giorni in cui Mubarak teneva “colloqui amichevoli”
con il primo ministro israeliano Netanyahu e con il presidente
del’ANP Abu Mazen, le delegazioni internazionali della Gaza Freedom
March hanno, di fatto, “assediato” il Cairo: i delegati del Forum
Palestina hanno manifestato insieme ai compagni delle altre
delegazioni nelle vie centrali del Cairo, lungo il Nilo, davanti alla
sede delle Nazioni Unite, insieme agli egiziani davanti alla sede del
Sindacato dei Giornalisti, nella piazza del Museo Egizio dove passano
migliaia di turisti, e di fronte alla sede dell’Ambasciata
Israeliana. Dopo la spaccatura interna a Code Pink, le delegazioni
hanno tenuto sulla gestione delle iniziative, costituendosi in un
coordinamento strategicamente omogeneo e propositivo.

Qui
veniamo al secondo importante risultato raggiunto nei giorni della
Gaza Freedom March: il consolidamento di un grande movimento
internazionale di sostegno al popolo palestinese che si è dato
un’agenda su cui lavorare e una piattaforma su cui basare
l’attività politica internazionale e interna ai diversi paesi di
provenienza. Il documento finale (Cairo Declaration), redatto su
iniziativa della delegazione sudafricana, in nome della passata
esperienza storica vissuta da un Paese per anni sotto il regime
dell’apartheid, rilancia la Campagna di Boicottaggio,
Disinvestimento e Sanzioni nei confronti di Israele, sulla base di
una piattaforma condivisa da tutti: l’autodeterminazione per il
popolo palestinese, la fine dell’occupazione della Palestina, pari
diritti per tutti all’interno della Palestina storica, il rispetto
del diritto al ritorno per i profughi palestinesi. Tutto questo,
senza dimenticare che l’“oppressione della Palestina trova
fondamentalmente origine nell’ideologia sionista”, e che Israele
rimane il primo responsabile di quanto da più di 60 anni avviene in
Palestina.

Gli eventi immediatamente successivi alla partenza
dal Cairo delle delegazioni della Gaza Freedom March non hanno fatto
che confermare l’analisi sul livello di complicità dell’Egitto
con le politiche israeliane: di fronte al violento tentativo di
reprimere anche l’iniziativa della Carovana Viva Palestina,
riuscita in parte ad entrare a Gaza ma subito dopo espulsa
dall’Egitto, di fronte alla dichiarazione del ministro degli esteri
Gheit che ha ribadito il divieto a future carovane di entrare
attraverso il valico di Rafah, di fronte a un territorio di confine
sempre più incandescente, vista la protesta dei cittadini di Gaza
contro la costruzione del muro, e alla ripresa di un livello di
tensione militare che può esplodere di nuovo, l’Egitto si
riconferma come un obiettivo su cui continuare a esercitare la nostra
pressione e la nostra mobilitazione.

Siamo tornati in Italia
con un enorme carico di lavoro da portare avanti, a livello nazionale
e internazionale. La morsa intorno alla Striscia di Gaza si sta
chiudendo, la costruzione del Muro d’Acciaio da parte dell’Egitto
e il divieto anche per le delegazioni umanitarie dimostrano che
Israele – con la complicità dei suoi servi nell’area – punta al
collasso dell’anomalia rappresentata dal solo lembo di terra
palestinese che sfugge al suo dominio. La mobilitazione contro questo
nuovo crimine è il primo impegno di tutti gli amici del popolo
palestinese nel mondo. Possiamo dire che la Gaza Freedom March non è
finita, ma continuerà il suo percorso. Sembra proprio che si sia
messa sulla giusta strada.

Con la Palestina nel cuore, fino
alla vittoria!

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