Dall’inizio dell’anno sono state uccise più di 100 donne in Italia, e l’anno scorso ne sono state uccise 137. La violenza, gli stupri, le uccisioni delle donne, in continuo aumento e sempre più efferati , sono alimentati dal clima che impone alle donne il ruolo di “angeli del focolare o puttane”. Per questo riteniamo che sia necessario, prendendo come spunto la data del 25 Novembre, Giornata Internazionale Contro la Violenza Maschile sulle Donne, intraprendere una riflessione sulla condizione delle donne. Il crescente numero di femminicidi è solo la punta dell’iceberg: la violenza nei confronti delle donne è la conseguenza tragica di un humus sempre più reazionario e maschilista frutto della necessità, soprattutto durante la crisi, di un maggior sfruttamento non solo della donna in quanto lavoratrice, ma anche della donna in quanto “angelo del focolare”. Infatti la società vigente nella realtà materiale fa del doppio sfruttamento delle donne una sua base: la donna non solo è coinvolta nello sfruttamento della classe alla quale appartiene, è anche tradizionalmente incatenata, come il servo della gleba alla terra, al focolare domestico dove svolge una funzione di tutela nei confronti del proprio marito, padre o figlio (il lavoro quotidiano domestico femminile è necessario per rifocillare le energie del lavoratore e per mantenere la sua integrità fisica). Per quanto riguarda la donna come lavoratrice, essa è ampiamente discriminata per il suo genere di appartenenza; infatti una donna su due subisce ricatti sessuali sul posto di lavoro, ed è una pratica assai comune quella delle dimissioni in bianco (una lettera di dimissioni volontarie senza data, che il datore di lavoro fa firmare al lavoratore al momento dell’assunzione, utilizzata ai primi posti per la gravidanza). Perdita del lavoro e/o basse retribuzioni per la donna significano più dipendenza, un “ritorno a casa”. La disoccupazione femminile (nel Sud lavorano 2 ragazze su 10) è una realtà cruda in quanto porta all’impossibilità di liberarsi dai legami della famiglia o della subordinazione economica del marito, che spesso diventa oppressione psicologica e fisica e quindi dall’unico futuro possibile di casalinga, moglie e madre. Se la violenza subita dalle donne viene letta solo in una prospettiva legata ad una concezione individualistica, per cui un corpo privo di vita non è altro che un cadavere, è impossibile attribuire ad esso un senso che vada al di là del lamento, del rimpianto e – in prospettiva – della rassegnazione o della disperazione. Provare a comprendere la matrice che lega i vari tipi di violenza nei confronti delle donne è già un primo passo verso l’emancipazione. Per questo crediamo che sia necessario ribadire il nostro dissenso nei confronti di chi, fino ad oggi, in linea con i governi nazionali che si sono succeduti, fino all’attuale Monti/Fornero, ha permesso che fossimo in una condizione di maggiore precarietà e disoccupazione, di pesanti tagli ai servizi sociali e sanitari, trasformando le donne sempre più in ammortizzatori sociali in carne ed ossa.
Non cambieranno nulla le quote rosa: in una società divisa in classi, portare le donne nelle sale del potere non muterà certo il nostro sfruttamento. E non cambierà niente nemmeno se releghiamo le nostre rivendicazioni alle ricorrenze istituzionali, come ormai è divenuta la giornata dell’otto marzo, un tempo giornata internazionale delle operaie, ormai svuotata dei suoi contenuti politici e divenuta una festa commerciale al “profumo di mimosa”. E’ necessario, invece, lottare per un movimento reale che superi lo stato di cose presenti, il quale produce violenza, disuguaglianze e sfruttamento, tanto sul lavoro quanto, in generale, nelle nostre vite.
NON C’è RIVOLUZIONE SENZA EMANCIPAZIONE DELLA DONNA,
NON C’è EMANCIPAZIONE DELLA DONNA SENZA RIVOLUZIONE!
Collettivo Politico di Scienze Politiche