Pubblichiamo questa interessante video-inchiesta sulla situazione dei lavoratori Fincantieri, a cura del collettivo Clashcityworkers di Napoli, per comprendere meglio quanto sta accadendo alla luce delle recenti mobilitazioni.
Maggio 2011: viene annunciata la possibile chiusura delle sedi di Fincantieri di Castellamare di Stabia e Sestri Ponente. Si parla di esuberi: 2551 operai, senza contare l’indotto, rischiano di perdere il lavoro.
I motivi che portano l’azienda a chiudere, a detta dei giornali e dei grandi mezzi di comunicazione sono: 1) la concorrenza internazionale, in particolare dei cantieri dell’estremo oriente 2) la carenza di commesse.
Ma è tutto completamente vero?
Prima di rispondere a questa domanda e provare a riproporre gli stessi problemi da un’altra prospettiva, facciamo un passo indietro di qualche anno.
Azienda pubblica italiana già di proprietà dell’IRI, oggi controllata da Fintecna, finanziaria del Ministero dell’Economia, Fincantieri – Cantieri Navali Italiani S.p.A. è uno dei più importanti complessi cantieristici navali d’Europa e del mondo.Dagli anni ’80 si specializza nelle produzioni ad alto valore aggiunto:
– Crocieristica: lavorando principalmente per la Carnival Corporation & PLC, società anglo-americana, il più grande operatore al mondo nel settore e la Disney Cruise Line.
– Militare: in particolare dal 2002 attraverso la Orizzonte Sistemi Navali S.P.A., joint venture, con Finmeccanica per la produzione di corvette, fregate e portaerei.
Si propone sulla scena globale anche nel campo delle riparazioni e trasformazioni navali, in particolare di unità passeggeri ed offshore, con una serie di sedi dislocate all’estero, in particolare nel golfo del Messico, meta principale delle crociere.
Sono circa 9.000 gli operai che lavorano, nelle varie sedi dislocate sul territorio nazionale e negli Stati Uniti, non tenendo conto dell’indotto che conta più di 20.000 dipendenti, con un’età media tra le più basse dei settori industriali: tra i 25 e i 40 anni.
La crisi
La scelta di specializzarsi nel settore crocieristico e militare si rivela presto vincente.
Dal 2000 infatti sono due i fenomeni che fanno la fortuna di Fincantieri: da una parte il boom delle crociere e dall’altra un costante aumento da parte degli stati delle spese militari per far fronte al crescere dei conflitti a livello internazionale. Queste due circostanze permettono a Fincantieri di conseguire negli anni ottimi risultati, rendendo l’azienda una preda estremamente appetibile per gli investitori privati. Si arriva così al 2007 quando, forte degli ottimi bilanci e con i mercati finanziari ai massimi, il governo Prodi progetta la privatizzazione del gruppo attraverso la quotazione alla borsa valori di Milano del 49% del capitale. La quotazione viene giustificata dal management in quanto indispensabile per reperire le risorse necessarie ad un ulteriore sviluppo del gruppo in ambito nazionale ed internazionale. I lavoratori però, consci dei risultati delle precedenti privatizzazioni, non abboccano e oppongono una determinata resistenza al progetto che avrebbe significato soltanto grossi profitti per pochi e esuberi e peggioramento delle condizioni di lavoro per gli operai.
Rallentato dalle proteste, il progetto di privatizzazione si arena definitivamente nel 2008 a causa della crisi finanziaria che fa venir meno le condizioni necessarie alla quotazione. Intanto, così come in tutti i comparti dell’industria, anche la cantieristica, settore ad andamento ciclico per eccellenza, avverte le conseguenze della crisi. Nel 2009 Fincantieri registra le prime perdite nel bilancio, nonostante l’azienda porti avanti i propri investimenti a livello internazionale. La dirigenza approfitta del momento per imporre un contratto integrativo che anticipa per molti versi i contenuti del famigerato piano-Marchionne.
È nel 2010 che cominciano a filtrare le prime indiscrezioni sul nuovo piano industriale che viene presentato ai sindacati il 23 maggio di quest’anno per poi essere, a seguito delle mobilitazioni, ritirato 10 giorni dopo.
La mobilitazione
L’annuncio della chiusura degli stabilimenti stabiese e genovese è una doccia fredda per gli operai: in entrambi i casi le sedi Fincantieri rappresentano il cuore pulsante delle economie locali e sono la fonte di sostentamento per la maggioranza delle famiglie.
La chiusura avrebbe un impatto devastante sui territori.
La rabbia dei lavoratori si riversa subito nelle strade, non avendo modo di portare la propria protesta all’interno dell’azienda, dove non si lavora: blocchi stradali, occupazioni, interruzione delle vie e delle linee ferroviarie. Anche gli abitanti di Castellamare e Genova partecipano attivamente alle mobilitazioni dei lavoratori di Fincantieri, dal cui lavoro dipende il futuro di un intero territorio e di una futura generazione.
Ma torniamo ai motivi della chiusura di Fincantieri
È completamente vero quanto ci viene detto a proposito dei motivi della chiusura degli stabilimenti di Castellamare e Sestri Ponente? Ci sembra che qualche bugia sia stata raccontata, rimangono troppe incongruenze. Proviamo allora a porre le stesse questioni in maniera diversa.
Cosa ci viene detto su Fincantieri che proprio non ci convince?
1. La prima bugia è che la concorrenza internazionale e il basso costo della manodopera in paesi come la Cina, sarebbe a capo di tutti i problemi di Fincantieri.
In verità non è così: è vero che in altri stati, sebbene pochi, si sia sviluppato il settore della cantieristica, ma con una produzione diversa da quella italiana e quindi non concorrenziale! Nel settore crocieristico Fincantieri ha, sulla scena mondiale, solo due concorrenti: la francese Aker Yards (controllata dalla coreana Stx ma con stabilimenti in Francia e salari francesi) e la tedesca Meyer Werft che insieme detengono il 57% del mercato lasciando il 43% a Fincantieri. Dov’è lo spauracchio cinese?
2. Per effettuare gli investimenti previsti nel piano industriale 2007-2011 era necessaria la quotazione in borsa e la crisi economica avrebbe reso vano questo tentativo.
In realtà gli investimenti all’estero previsti dal piano industriale ci sono stati; quello che è stato rimandato a data da destinarsi sono gli ammodernamenti tecnologici delle sedi, impossibili – questi sì – perché la probabile quotazione in borsa è coincisa con la crisi economica. Inoltre, seppure fossero stati fatti, sarebbero stati inutili a causa del calo della domanda. La presenza sul mercato azionario richiede poi, necessariamente, un aumento della produttività che coincide sempre con un peggioramento delle condizioni di lavoro e contrattuali dei lavoratori che, sotto il ricatto della perdita del lavoro, risulta più semplice da attuare.
3. La terza bugia è relativa proprio alle condizioni di lavoro: dicono che, per risollevare Fincantieri da una crisi “strutturale”, sia necessario intervenire con un piano industriale lacrime e sangue.
Anche qui, stando alle stime per il 2012, è prevista una ripresa delle commesse nel settore cantieristico e, più che una crisi strutturale, pare trattarsi di un ciclico ribasso strutturale delle commesse che si potrebbe affrontare, in attesa della ripresa, con i vari ammortizzatori sociali messi in campo in questi casi.
4. La quarta e ultima bugia riguarda il ruolo del governo nazionale e la politica: si sbandierano le normative comunitarie che impedirebbero agli stati di aiutare le imprese in difficoltà finanziandole direttamente.
Che eccesso di zelo! È vero che la normativa è chiara in tal senso, ma i nostri governanti sanno benissimo che esistono mille modi per aggirarla con strumenti assolutamente legali, strumenti che, per esempio, sostengono le imprese tramite gli enti locali e sgravi fiscali; soluzioni che in altri paesi europei come la Francia sono state più volte sperimentate.
Esiste, quindi, una precisa volontà di non risolvere la questione Fincantieri? Perché?
In un momento di crisi come quello attuale c’è sul mercato finanziario un eccesso di liquidità che va assolutamente investito. Fincantieri, in questo senso, rappresenta un’occasione e un’anomalia: un’anomalia perché è una delle poche aziende a gestione statale e sottratta al mercato azionario, un’occasione perché una possibile, immediata e redditizia fonte di investimento.
Insomma: si va verso la privatizzazione di Fincantieri?
Se la risposta fosse positiva ci spiegheremmo il perché di tutto ciò che accade: si sta preparando il terreno disintegrando sul piano del lavoro la resistenza degli operai, si prepara un nuovo tipo di contratto – che ricalcherebbe quello integrativo del 2008 – che seppur esistente non è stato ancora provato dagli operai che si ritroveranno a lavorare (probabilmente non tutti) a condizioni nuove, peggiori e sulle quali non ci sarà possibilità di contrattazione alcuna.
Si sfrutta questa fase perché gli operai non sono in fabbrica, non hanno possibilità di scioperare e hanno minori possibilità di organizzazione e contrattazione, e saranno più ricattabili al momento di un’eventuale nuova assunzione sotto una nuova proprietà.
Se così fosse ci spiegheremmo perché gli stessi operai di Castellamare parlano di piano-Marchionne. Se, leggendo e provando a capire il piano Marchionne fu subito chiaro che non poteva trattarsi di un esempio isolato, ma di una linea di tendenza, allora l’effetto cascata riguarda proprio Fincantieri.
Anzi, possiamo dire di più: quello che Bono – amministratore delegato Fincantieri – ha proposto con il contratto integrativo per Fincantieri del 2008 rappresenta addirittura il precursore dell’accordo Marchionne per la FIAT.
Insomma, non pare infondata l’ipotesi di chi sostiene che si gridi alla finta concorrenza internazionale e alla crisi globale con lo scopo di privatizzare l’ultima fetta di produzione sottratta al mercato.
Cosa significherà per i lavoratori? Probabilmente ciò che considera necessario lo stesso Bono o chi condivide con lui un determinato percorso per il rilancio dell’economia italiana: tagli e privatizzazioni, salari più bassi e condizioni di lavoro peggiori, cooperazione dei Sindacati per gli interessi delle imprese; in nome del profitto e del benessere nazionale.
Ma il benessere di chi? I lavoratori Fincantieri, con le loro lotte, hanno messo in discussione il paradigma dell’interesse nazionale, evidenziando che – per quanto spesso si sostenga diversamente – interesse dell’impresa e interesse dei lavoratori non vanno di pari passo. Il ritiro del piano Bono è sicuramente una prima vittoria, ottenuta grazie alla mobilitazione operaia.
Ma gli scenari futuri non sono rassicuranti: dal nuovo modello di relazioni industriali Bono-Marchionne, alle pressioni di UE, BCE e FMI per una spinta sull’acceleratore delle privatizzazioni, si va verso un’ulteriore precarizzazione delle condizioni di lavoro. In quest’ottica Fincantieri è un esempio, un punto di partenza per capire cosa accade e cosa accadrà in un’Italia alla deriva.