Nell’ultimo anno e mezzo, tutti i provvedimenti presi dal governo dei tecnici, con l’appoggio incondizionato e trasversale di tutti gli schieramenti – dalla riforma delle pensioni, agli attacchi serrati al mondo del lavoro, passando per la spending review e i tagli indiscriminati a tutti i servizi – hanno mostrato in maniera evidente l’intenzione della parte di borghesia italiana più internazionalizzata di adeguare il sistema socio-economico del paese agli standard europei e di accreditarsi agli occhi dei grandi capitali internazionali. Non sono un caso, infatti, i continui riferimenti dei ministri-professori e dei politici ai sistemi mitteleuropei, in particolare all’agognato “modello tedesco”, e cioè a quelli perfettamente funzionali alle esigenze della borghesia europea più avanzata.
Terminata l’esperienza “eccezionale” del governo Monti, nel pieno di una campagna elettorale che ci restituisce un’immagine della realtà dei fatti sempre più distorta, l’unica preoccupazione dei vari schieramenti in corsa – gli stessi che fino a pochi mesi fa hanno dimostrato di saper fare così bene fronte comune nel garantire di fatto sostegno e piena agibilità e legittimità politica all’esecutivo uscente, agitando di volta in volta gli spettri dell’austerità e della crescita dietro vuoti e pomposi appelli al “comune senso di responsabilità nazionale”- è quella di recuperare consenso e voti. Al di là delle apparenti divergenze di programmi e delle differenti dichiarazioni d’intenti, ci appare chiaro che, qualunque sarà il risultato uscente dalla tornata elettorale, il futuro governo dovrà muoversi su una direzione politica il cui percorso è già solcato. E’ assolutamente indifferente che a risultare vincitrice sia la retorica anti-europeista e populista di un mai morto Berlusconi (ancora principale riferimento per gli interessi della piccola e media borghesia che in questi mesi ha opposto non poche resistenze alla “modernizzazione” del tessuto produttivo del paese avviata dai tecnici), che sia il porsi del Pd come forza interclassista pur rappresentando attualmente il principale blocco reazionario della scena politica italiana, oltre che un interlocutore sempre pronto a rassicurare i poteri forti dell’Unione Europea, o che sia la costruzione di un grande centro stabile di chi, come l’Udc, ha deciso di sostenere la “salita in politica” dell’ex premier Monti.
Nessuna di queste forze, infatti, ha messo in discussione quelli che sono i vincoli imposti dalle gerarchie europee che la crisi ha velocemente delineato, dal fiscal compact all’obbligo del pareggio di bilancio costituzionale. “Vincoli europei” che se da un lato vengono utilizzati come strumento per autoassolversi e lavarsi le mani di fronte agli elettori, dall’altro sono sintomatici di una delle contraddizioni interne alle nostre “democrazie” e della totale inutilità di queste elezioni.
Emblematico, per quello che sarà l’agire politico del prossimo governo, è il contenuto della cosiddetta Agenda Monti, vero e proprio manifesto programmatico dei mesi a venire.
Ma cosa prevede questa “Agenda Monti” nello specifico?
Centrale è, ovviamente, la questione del lavoro: l’attacco al contratto collettivo nazionale e agli ormai residuali diritti dei lavoratori (con la complicità dei sindacati concertativi) sono solo alcune delle misure che dovrebbero rendere ulteriormente “flessibile” un mercato del lavoro dai tempi e dagli spazi già infernali. Nell’Agenda si ipotizza anche un utilizzo più spinto delle pensioni integrative (che consentirebbe di mettere in circolo quote consistenti di capitali oggi immobilizzate nei risparmi dei lavoratori) e si assume come prioritario l’impegno dell’Italia all’interno della NATO, dando una particolare preminenza all’industria bellica e prendendo parte in tutti gli scenari di guerra (in questo senso va il sostegno logistico dato alla guerra francese in Mali). Non potevano mancare gli interventi nel settore dell’istruzione. La battaglia è ovviamente quella per una scuola incentrata sul merito e sulla competizione, principi che gli studenti devono completamente interiorizzare, fin dalle scuole superiori, per poi dovere immediatamente conformavisi. É proprio sulle scuole secondarie che si è soffermata l’attenzione, prevedendo finanziamenti mirati erogati in base ai risultati delle prove INVALSI che hanno già dimostrato di non essere niente altro che un tassello ulteriore nello sviluppo e nella diffusione di un sapere puramente nozionistico, tutto a discapito di una formazione che possa dotare di veri strumenti di critica. A questo vanno aggiunte le “raccomandazioni” del ministro Profumo e di numerosi esponenti politici bipartisan ad iscriversi ad istituti tecnici e professionali per portare a compimento il progetto di creazione di atenei d’eccellenza e di atenei “parcheggio” e scremare già dall’accesso il numero di immatricolati all’università, tanto in Italia “non abbiamo bisogno di geni”, come puntualmente ha tenuto a precisare il Presidente del Censis, De Rita.
Uno sguardo sul mondo dell’Università e della formazione
La posizione di De Rita non è però isolata, ma è perfettamente in linea con le riforme del sistema formativo fatte da vent’anni a questa parte, tanto da governi considerati di “sinistra” quanto da governi di “destra”. In una lettera di qualche giorno fa, indirizzata a Repubblica, Bersani si affretta a sostenere che “Il giusto riconoscimento del merito deve essere accompagnato dalla valorizzazione delle opportunità che ciascuno ha di accedere alla formazione, altrimenti diventa solo la certificazione di un privilegio di nascita o di censo”. Bersani e tutto il PD, però, non si sono opposti nelle aule del parlamento alla riforma Profumo, al taglio continuo delle borse di studio e in genere dei servizi per gli studenti, così come non si sono opposti allo sfacelo di cui è responsabile la precedente riforma Gelmini prodotta dall’ultimo governo targato PDL. Non si può dire che siano diverse le linee seguite dal governo dei professori che, oltre a insistere sulla logica meritocratica, richiedono generici “più fondi” per università e la ricerca, senza chiarire quali saranno i criteri per la distribuzione dei fondi stessi: non è difficile ipotizzare come questi saranno destinati agli atenei virtuosi tanto amati dal ministro Profumo, mentre agli altri atenei, ormai al collasso, rimarranno solo le briciole.
Insomma, i programmi di tutti i partiti si fondano, a dispetto delle parole pronunciate, sulla strenua difesa del concetto di merito che è presentato da tutti, trasversalmente ai partiti e oltre i partiti stessi (vedi le dichiarazioni di esponenti di Confindustria), come neutrale e che permette a chiunque di “emergere”; nessun sostenitore del merito, però, nel fare l’apologia dello stesso, tiene conto delle condizioni diverse da cui parte ognuno- dalla condizione economica della famiglia, al contesto sociale in cui vive. Quello che vogliono farci credere è che il merito possa portare alla costruzione di una società più equa e giusta, lontana dall’Italia di fine anni ’90 del clientelismo e delle raccomandazioni.
Abbiamo, però, imparato a conoscere, a nostre spese, cosa si nasconde dietro tutto ciò: maggiore selezione di classe, individualismo sfrenato, aumento delle diseguaglianze economiche e sociali. Sappiamo che la risposta a questo preciso stato di cose non si trova all’interno di nessuna cabina elettorale, ma che è tutta da costruire. Sta solo a noi farlo a partire da quello che siamo, dalle lotte che quotidianamente sosteniamo dentro e fuori le facoltà, dalla capacità che avremo di connetterle con quelle di tutti i soggetti che questo sistema sfrutta e opprime, dalla volontà, dall’intelligenza, dalla determinazione che sapremo avere nel rispondere agli attacchi che ogni giorno ci vengono rivolti.
No all’università-azienda!
Il futuro non è scritto!
Non delegare, lotta!
Red-net
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