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SULLA LECTIO MAGISTRALIS DI MARINO REGINI: TE LO SPIEGHIAMO NOI COSA VUOL DIRE ESSERE STUDENTI IN QUESTA CRISI.

image79Alla conferenza in aula magna del 9 aprile 2013, è stato fatto gran sfoggio di numeri e cifre, schemi e tabelle. La lezione cui abbiamo assistito, presenziata dal Rettore Tesi e guidata da Franca Alacevic, ex presidente di Scienze Politiche, Cecilia Corsi nuova presidente della Scuola di Scienze Politiche, il professor Gilberti di Bologna e il famoso Marino Regini, avrebbe dovuto chiarirci le idee riguardo i recenti cambiamenti strutturali del nostro ateneo e dell’università in generale, il tutto  in un’ ottica comparata con gli altri istituti europei. Entriamo più nel dettaglio.

 L’iniziativa si è subito aperta con un preambolo dei nostri accademici fiorentini: da un lato le scuse e le giustificazioni per aver tentato di fare del proprio meglio “nonostante la mancanza i fondi e gli sconvolgimenti attuati dalla riforma”, dall’altro un retorico trionfalismo in cui si tenta di dare dignità al nuovo nome della facoltà, “scuola”, in onore della fondazione della “Scuola Cesare Alfieri” più di cento anni or sono. Forse converrebbe che scegliessero attentamente a che emozione abbandonarsi e da che parte stare: ma si sa, la regione toscana è una virtuosa e per ora a tutto c’è rimedio, anche al taglio del fondo di finanziamento ordinario, e probabilmente il tempo delle domande e delle risposte può essere rimandato. Segue una breve rappresentazione grafica da cui emerge la consistente diminuzione del personale docente e di ricerca, presentata come un dato astratto senza base reale, mentre non è altro che la diretta conseguenza della riorganizzazione del sistema universitario, il che equivale appunto a riduzione dell’offerta formativa (corsi triennali di scienze politiche passati dal 2005 al 2013 da 8 a 2, quelli magistrali per lo stesso periodo da 9 a 5), tagli del personale e disservizio.

 Dopo questa breve presentazione ecco l’intervento del prof. Gilberti dell’università di Bologna, il cui momento culminante  probabilmente è il passo in cui definisce noi studenti un output da immettere al più presto nel mercato del lavoro. Peccato che si parli sempre di lavoro senza specificare che tipo di lavoro, quando ci troviamo in un quadro di crisi fatto di smantellamento dei diritti, tagli ai servizi, precariato e disoccupazione, come se non bastasse lo sfruttamento quotidiano che accompagna questo sistema. Senza contare che potersi sfamare non dovrebbe implicare  l’asservimento allo sfruttamento.

 Il piatto forte della mattinata costituisce naturalmente l’intervento dell’esimio Marino Regini, professore ordinario alla Statale di Milano, autore di alcuni libri sullo studio comparato delle tendenze europee del sistema d’istruzione. Apre subito con un’ analisi in tre fasi dello sviluppo del comparto formativo la cui esemplificazione forse a noi più nota è il famoso Processo di Bologna, che ha decretato la definitiva parcellizzazione e conseguente mercificazione del sapere, introducendo il 3+2+n (triennale, magistrale e master) quale standard competitivo per i giovani europei. La prima fase costituisce la cosiddetta università di massa degli anni ’60 che, secondo le sue testuali parole, “ha gravato sulle spalle dello stato”, inserendo di fatto quello che dovrebbe essere un diritto, ovvero l’istruzione, tra quella serie di servizi che seppur fondamentali, hanno la colpa di essere costosi, contribuendo di fatto alla crisi fiscale dello stato. Come dire che “tolti i i pensionati, gli immigrati, i lavoratori, gli studenti e i malati”  non avremmo più il debito pubblico: questo non fa altro che avallare la retorica dell’ “abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”, il che vuole semplicemente dire che abbiamo osato pretendere i nostri diritti. I malati si sono ammalati troppo spesso, i vecchi sono morti dopo troppe retribuzioni pensionistiche, i lavoratori hanno preteso troppe tutele, gli studenti hanno osato studiare, gli immigrati hanno osato cambiare paese, i padroni hanno fatto i padroni: ma quest’ultima cosa non è un problema, a quanto pare. La seconda fase è quella da lui definita “l’economia della conoscenza” e probabilmente costituisce il periodo, indicativamente gli anni 80-90 fino a metà del 2000, in cui si sono definiti ancora di più i termini di una cultura dedita all’ utile, produttiva, dequalificata. La terza è la sopracitata crisi fiscale dello stato, come giustificazione per la Gelmini-Tremonti tanto quanto la recente riforma Profumo, parte integrante dell’agenda Monti, così come per tutto lo smantellamento di una serie di servizi pubblici della sanità, dell’istruzione, della previdenza sociale ecc ecc. inoltre, come se fosse possibile ridurre la questione del  debito ad un mero problema di disavanzo pubblico.

Il passo successivo affrontato da Marino è stata la schematizzazione dei valori “base” alla guida delle tendenze di riforma del sistema formativo: una maggiore autonomia istituzionale che non può che comportare maggiore influenza del mercato laddove il pubblico cede terreno (se si può ancora auspicare una differenza tra essi); la competizione, da sempre elogiata perché premia i meritevoli, mentre in realtà non è nient’altro che una gara dall’esito scontato, quando a essere in competizione non sono le capacità ma le “differenze” sociali ed economiche, attuando di fatto una selezione di classe; e la valutazione, strettamente connessa alla retorica del merito e dell’eccellenza.

Il passaggio successivo affrontato è stata una serie di comparazioni  dei sistemi universitari  europei tra quelli con il rettore eletto (da Cda o Senato accademico) o nominato da terzi, come nella maggior parte dei casi; tra quelli caratterizzati da un elevato grado di bipolarismo dei due organi di ateneo (l’Italia è annoverata tra questi) e altri con una minore bipartizione decisionale. L’Italia viene anche definita come l’esempio del “tradizionale” modello continentale di “autonomia senza responsabilità”, perifrasi che sta a indicare lo sviluppo di poteri paralleli a quello statale nel cui orizzonte concettuale Marino fa rientrare il cosiddetto baronato, l’oligarchia accademica. Forse si dimentica di puntualizzare che i rapporti di potere all’interno dell’università non fanno altro che riprodurre i rapporti di potere economico, politico e culturale della società, e che questa tirannia è facilitata dalla sempre più ingerente presenza dei privati e degli interessi aziendali nelle nostre università (ricordiamo l’ingresso trionfale a gennaio di due rappresentanti di Confindustria nel Cda fiorentino, in occasione dell’elezione dei tre membri esterni come da riforma Gelmini, dove 8 studenti che contestavano sono stati denunciati).

Marino prosegue poi il monologo lanciandosi in una teorizzazione del sistema universitario inteso come duplice: caratterizzato quindi dalla “vocational track” e dalla “academic track”. Questa differenziazione, resta un mero tecnicismo, perché alla fine entrambe le piste finiscono per sopperire alla necessità di profitto delle aziende, bisognose tanto di ricerca e di sviluppo tecnologico quanto di manodopera e capitale umano. Il nostro relatore milanese arriva infine ad auspicare come conseguenza di questo “sistema diversificato”  un ampio orizzonte dalle più svariate possibilità, dimenticando forse, che per chi non ha i soldi, non esiste alcuna possibilità. Non contento, arriva addirittura a parlare di due tipi di differenziazione: una auspicabile tra i vari dipartimenti all’interno della stessa università, conseguita investendo maggiormente in quello più virtuoso in nome di un’ agognata concorrenza internazionale; l’altra, meno nuova, tra atenei di serie A  e serie B. Quest’ultima, unita al calo di finanziamento per il sistema formativo pubblico a favore di quello privato, è stata ripresa pochi mesi fa dalla dibattuta legge sull’abolizione del valore legale del titolo di studio (riproposta anche dal programma elettorale del Movimento 5 stelle). Se approvata, finirebbe per emulare gli effetti di una manovra già tentata durante gli anni ’60. Allora, infatti la Commissione Ermini, in accordo con il ddl Gui, provò a delineare lo scenario in cui da una parte ci sarebbero state le università nel vero senso della parola, autorizzate a rilasciare diploma, laurea e dottorato; dall’altra  i cosiddetti “istituti aggregati”, che avrebbero potuto erogare soltanto diplomi di primo livello. Il decreto legge non venne approvato perché scatenò un forte dibattito incentrato sulla questione dell’uguaglianza, dell’accesso all’istruzione e dell’assenza di democraticità del processo di differenziazione degli atenei in prestigiosi, destinati a sfornare i quadri dirigenti, e in istituti “parcheggio”, atti a fornire la manovalanza, la manodopera dequalificata utile al sistema. Oggi, in un contesto di crisi in cui flessibilità, (un modo elegante per indicare la facilità di entrata e di uscita dall’occupazione, come da migliore logica co.co.pro, co.co.co), licenziamento e disoccupazione relegano i lavoratori ad un esercito industriale di riserva in attesa di una magra cassa integrazione (quando c’è), mentre i padroni continuano a lucrare sulle nostre vite, cosa comporterebbe? Una gara dove chi non studia alla Bocconi di Milano o alla Luiss di Roma, garantendosi una poltrona per il prossimo governo “tecnico”, vince precariato, lavoro nero, disoccupazione, contratti a chiamata e una pensione da 500 euro netti (quando va di lusso), dopo aver passato anni su libri di case editrici affiliate ad agenzie di rating (come la McGraw -Hill) e a fare ricerche su come garantire maggiore profitto alle aziende invece che su come curare malattie ad esempio. A sostegno implicito di tutto ciò, Marino si lascia sfuggire, durante un lungo sproloquio di classifiche internazionali da 400 e 500 posti, che, secondo gli ultimi dati, tra i 14 atenei che compaiono nei ranking più noti, solamente uno è del sud, nonostante gli atenei del meridione costituiscano ben il 31, 8% del totale degli atenei italiani. Questa esemplifica la presenza di evidenti differenze economiche e sociali che si riflettono anche secondo aree geografiche: se per quest’anno l’Ardsu toscana è riuscita più o meno a garantire quasi tutte le borse di studio, poco possono dire gli studenti idonei ma non beneficiari di molti atenei del sud, che pur avendo diritto alla borsa non ne hanno mai vista una.

 A ben poco valgono dunque le parole di Marino, che si prodiga in rassicurazioni su come la differenziazione non possa rappresentare che un beneficio per noi studenti, tutto questo mentre continua imperterrito a sciorinare dati su sbocchi occupazionali e classifiche delle varie università. Anche qui, quali classifiche, secondo quali criteri? Se il criterio costitutivo del sistema formativo deve essere la rispondenza al mercato del lavoro dipinto poche righe innanzi non possiamo fare altro che metterci le mani nei capelli: l’unica cosa che possiamo sperare è di studiare sterili nozioni (la cultura, quella vera, quella libera, sottratta al profitto e ai baroni universitari di turno è un’altra cosa), in attesa che valutino il nostro grado di mercificazione. La guerra ai fuoricorso, molto spesso studenti lavoratori, e la retorica del meritevole dall’altra spingono noi studenti in gara alla corsa al foglio di carta: una corsa che porterà la maggior parte di noi verso il baratro del precariato, della disoccupazione, dello sfruttamento, mentre pochi fortunati ci comanderanno a bacchetta sventolando master della London School of Economics dai costi esorbitanti. È dunque questo il merito di cui dovrebbero fregiarsi le nostre università? L’orgoglio di Marino quando rivela l’encomiabile posizione di graduatoria di alcune delle nostre università tra i primi 100 posti nelle classifiche internazionali è dunque quanto di più imbarazzante: gioite, se non siete destinati all’élite, vi rendiamo perfetta carne da macello!

 Qua si parla solo di classifiche e dati tecnici che tacciono sulle ingiustizie, si balbettano scuse e si evita di rispondere a domande troppo imbarazzanti, ci si riempie la bocca di criteri ambigui come merito, produttività e selezione.

E dei docenti, i ricercatori licenziati in questi anni di riforme? Delle condizioni dei  lavoratori delle portinerie e delle pulizie in subappalto? Dell’aumento delle tasse, della riduzione delle borse di studio, delle case dello studente abbandonate, della diminuzione di più di 50.000 immatricolati all’università in tutta Italia?

Di noi studenti lavoratori e a tempo pieno, delle nostre famiglie, costrette a stringere sempre di più la cinghia, le vostre classifiche e i vostri dati non parlano.

 Tutto questo differenziare, selezionare… ma l’accesso all’istruzione non è un diritto? Sì? E allora noi ce lo prenderemo.

 I DIRITTI NON SI MERITANO, SI CONQUISTANO.

 PER UN’ISTRUZIONE E UN LAVORO LIBERI DAL PROFITTO.

Collettivo Politico * Scienze Politiche

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DIVISI NEL MERITO, UNITI NELLA LOTTA.

L’università oggi…

Tutti i provvedimenti che, negli ultimi anni, hanno contribuito alla ridefinizione dei percorsi formativi, rispondevano all’assunto neoliberista imprescindibile in tempi di crisi della riduzione dell’intervento statale, della “revisione dei conti”, dei “tagli alla spesa”, insomma di tutti quei leitmotiv quantomai necessari a coprirne la vera natura: il rilancio dei profitti all’interno dell’ennesima crisi strutturale del capitalismo e la configurazione di un’università sempre meno di massa e sempre meno luogo di elaborazione di sapere e discussione critica, esplicitamente funzionale alle esigenze di ristrutturazione del mercato del lavoro.

Nell’attuale periodo di transizione che il mondo della formazione sta vivendo, quindi,  il “fare cassa” a tutti i costi dell’ex ministro Gelmini e la riforma a costo zero del “tecnico” Profumo, vero e proprio manifesto ideologico dei “valori”di merito e produttività della società capitalistica, costituiscono due facce della stessa medaglia.

La dequalificazione formale e sostanziale della didattica all’interno degli atenei, la parcellizzazione degli esami in crediti  formativi, i tagli indiscriminati alle risorse che dovrebbero poter garantire agli  studenti i servizi minimi (mense, studentati, borse di studio, etc.) non producono altro che un sapere atomizzato incapace di cogliere in maniera critica le contraddizioni di questo sistema ed un inasprirsi della selezione di classe all’interno del processo di privatizzazione ed aziendalizzazione progressivo dell’università. La selezione, resa esplicita in entrata dall’introduzione massiccia di test d’ingresso e di autovalutazione, agisce però prepotentemente anche durante e alla fine del percorso di studio.

A conferma di questo processo che rimarca e sottolinea le differenziazioni di classe nell’accesso agli studi superiori, anche le tasse, dopo l’impennata  di quelle regionali per il diritto allo studio (arrivate a 140 euro in tutte le regioni), a partire dall’inizio del 2013, subiranno un ulteriore aumento:  per gli studenti fuoricorso, l’aumento rispetto ai contributi versati dagli studenti in corso sarà del 25%, del 50% o del 100% calcolato  progressivamente su tre fasce di reddito.  Inoltre, poiché questi contributi non verranno fatti rientrare nel corrispettivo 20% del Fondo di Finanziamento Ordinario che gli atenei possono imporre agli studenti, riducendosi la base a cui viene applicato il prelievo tributario, si verificheranno aumenti consistenti anche per gli studenti in corso.

Oppure, è sufficiente pensare al meccanismo di differenziazione del 3+2+n ( in cui “n”è il numero dei master e degli eventuali corsi di perfezionamento) che ha evidentemente peggiorato i modi e la qualità della didattica, parcellizzandoli e meccanizzandoli ulteriormente, o a quello del tirocinio e dello stage che, ben prima che gli studenti transitino nel mondo del lavoro, consente alle aziende di sfruttare la loro forza lavoro praticamente a costo zero, o comunque ad un costo minoritario rispetto a quello di un lavoratore garantito a tempo indeterminato.

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ASSEMBLEA STUDENTESCA: VERSO IL 17 NOVEMBRE … 24 ottobre ore 15 @ Architettura

Gli studenti rifiutano i sacrifici: la lotta continua…

ORE 15 MERCOLEDI 24 OTTOBRE @ARCHITETTURA (piazza Ghiberti)

QUI intervista di Radio BlackOut sulla giornata di moblitazione del 16.

 Il 16 ottobre 2012 in qualche centinaio, fra studenti universitari, medi e alcuni docenti precari, ci siamo ritrovati in presidio in piazza san Marco, per contestare il ministro dell’istruzione Profumo, ospite d’onore all’Accademia delle Belle Arti. Nonostante la sua assenza, abbiamo ribadito con determinazione il nostro NO alla cosiddetta “riforma del merito”, all’aumento delle tasse universitarie, allo smantellamento del diritto allo studio (dal taglio alle borse di studio a quello delle linee periferiche e regionali del trasporto su gomma e su rotaia), all’aziendalizzazione di scuole ed atenei e, complessivamente, alle politiche di sacrifici e macelleria sociale imposte dal governo Monti. Al termine del corteo, nato spontaneamente dalla rabbia dei tanti presenti verso il presente sistema di sfruttamento, ci siamo riuniti in un assemblea assai partecipata, dalla quale usciamo più che mai determinati a proseguire la mobilitazione.

 Infatti, la spending review, il decreto ministeriale 68/2012, la cosiddetta riforma Profumo condurranno inesorabilmente all’aumento generalizzato delle tasse universitarie ed al taglio drastico delle borse di studio. Parallelamente, viene portato avanti il processo di aziendalizzazione di scuole ed università. Si tratta, cioè, di consentire alle aziende private di determinare la forma ed i contenuti della ricerca e della didattica, dequalificando la cultura e piegandola alle proprie esigenze di profitto, per garantirsi la riproduzione di forza lavoro precaria e dequalificata. Gli studenti, in quanto futuri lavoratori, rappresentano niente di più che capitale umano, pronto per essere sfruttato.

Tale disegno politico, già centrale nelle riforme varate dai precedenti governi (sia di centro-destra che di centro-sinistra), punta alla creazione di un sistema formativo bipartito: da un lato, istituti d’eccellenza per pochi Prosegui la lettura »

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